Correggere il proprio cuore
di Bruno Gonzalez
L’Aikido ci consente di superare i nostri limiti oppure è un ulteriore strumento di divisione? In questo testo autorevole, Bruno Gonzalez ci invita a riflettere sulla correlazione tra i dettami del Fondatore e le nostre azioni.
Parole di O’Sensei Morihei Ueshiba
- “L’Aikido non decide tra il bene e il male“
- “Non appena hai a che fare con il bene e il male nei tuoi simili, crei una fessura nel tuo cuore attraverso la quale entra la malizia“
- “Osservare gli altri, criticarli e competere con loro ti indebolisce e ti sconfigge“
- “L’aiki non è una tecnica per combattere o sconfiggere un nemico, è un percorso per riconciliarsi con il mondo e rendere gli esseri umani una famiglia“
- “L’Aikido è non resistenza. Poiché è non resistente è sempre vittorioso“
- “Vincere significa superare lo spirito di discordia che c’è in te“
- “Il vero Budo è la protezione di tutti gli esseri con uno spirito di riconciliazione“
Organizzare queste citazioni, scegliere quale posizionare prima o dopo l’altra – in altre parole: disporle in un ordine specifico – crea inevitabilmente collegamenti tra di esse e, soprattutto, si corre il rischio di cambiare il loro significato originale.
Tuttavia, per riassumere, credo sia ragionevole affermare che l’Aikido è, nel senso più ampio del termine, una via di pacificazione che rimuove l’illusione dell’ “Io” come singolo individuo a favore di una coscienza unificante.
Mi spiegherò, niente paura.
La realtà sul campo
Più o meno in larga scala possiamo constatare, qui o altrove, che i praticanti di Aikido, principianti o di alto livello, indipendentemente dal loro grado di competenza, trascorrono gran parte del loro tempo alimentando conflitti interni e rivalità, ovvero forme di negatività corrosiva e cannibale.
A titolo di esempio:
Questo non è il mio approccio (o la mia scuola), quindi sconsiglio fortemente di frequentarla ai miei studenti ricorrendo persino a calunnie, messa in guardia, minacce, boicottaggi.
Un amico non condivide il mio punto di vista quindi diventa, di fatto, un reietto.
Mi piacerebbe partecipare al seminario di quel Sensei, ma sono in rivalità con la persona che lo organizza…
Lo studente, il vicino di casa, l’amico, il nemico, lo straniero… ha fatto questo o quello, ieri o 30 anni fa… ed ecco una buona occasione per commentare, rimuginare, fare pettegolezzi su di lui per rivalutare se stessi, per sentirsi offesi, per piangere l’ingiustizia, per continuare a dare la colpa al bastardo che ci ha rubato il sacchetto di biglie quando avevamo cinque anni.
In breve: per persistere nell’abbracciare i cadaveri.
Non voglio demoralizzarti con troppi esempi, ma se ti sei appassionato al discorso ti basta continuare a cercare nel tuo zaino! …e se è troppo difficile, guarda in quello del tuo vicino.
Sebbene il loro significato possa essere intenzionalmente oscurato, tutti saranno d’accordo sul fatto che le parole di O’Sensei differiscono da quelle che un Aikidoka sperimenta come realtà sul terreno.
È del tutto naturale che ognuno, a causa delle proprie inclinazioni, favorisca o sia attratto da certe situazioni più che da altre. Ma è necessario, è utile sviluppare e mantenere un rapporto conflittuale, cronico, mentre si cavalca un’onda di negatività?
Se mi piacciono le mele le mangio, se odio o non riesco a digerire gli spinaci non li compro.
Io non esprimo nessun giudizio di valore a favore di mele o spinaci, ho semplicemente un’inclinazione verso l’uno o l’altro: senza rancore, senza implicazioni psicologiche contro gli spinaci.
La domanda urgente che dobbiamo porre a noi stessi è:
“La nostra pratica promuove una significativa riduzione delle situazioni di conflitto tra noi e il nostro ambiente?”
Se la risposta è “Mah…”, allora dobbiamo riconoscere che abbiamo parzialmente, se non del tutto, perso l’obiettivo.
Perché questi conflitti?
Per la maggior parte di noi, la sensazione di esistere passa per l’affermazione della nostra individualità, della nostra identità, e il più delle volte, faremmo bene ad ammetterlo, a scapito degli altri. Si genera così un senso di separazione e dualismo. Allo stesso tempo, paradossalmente, si avverte un bisogno di riconoscimento cronico e coinvolgente perché questa sensazione di separazione genera un senso di mancanza, di profonda insoddisfazione.
Per riempire il vuoto ci buttiamo a capofitto in una infinità di strategie per la ricerca (filosofica, religiosa, spirituale, artistica, scientifica…).
“Colui che ha perso la sua efficienza a causa dell’ignoranza congenita aspira a molteplici macchie“. Spandakārikā
Di che cosa è fatta la nostra “individualità” o “personalità”?
La spina dorsale della nostra identità si basa principalmente su un patrimonio genetico che è comune a tutti per sua profonda natura ma differente nella sua disposizione, interazioni ed espressione.
Così la plasticità della nostra personalità attinge, si articola intorno ad archetipi, a molteplici credo e condizionamenti, a illusioni, disillusioni, a una coscienza collettiva, alle esperienze… e ai ricordi.
Ricordi che la sensazione di sé (IO) rinnova in ogni momento.
Quindi la nostra visione del mondo non è altro che un riflesso del nostro stato di coscienza. Noi non percepiamo gli oggetti per come sono, ma per come siamo. In altre parole, quando un ladro incontra un uomo saggio vede solo le sue tasche.
In parole povere, se ognuno di noi si IDENTIFICA con le proprie convinzioni, il conflitto con le convinzioni degli altri diventa inevitabile.
Ciò potrebbe essere visto in modo superficiale come un semplice dibattito di idee, ma nel profondo si tratta proprio di una lotta per l’identità, che produce insoddisfazione e una paura lancinante più o meno dichiarate. Ecco perché abbiamo una certa tendenza a coltivare, rivendicare e dogmatizzare la nostra identità.
“A seconda della posizione da cui osserviamo, del nostro punto di vista, noi non abbiamo lo stesso grado di ansia“. Michel Cassé
Trascorriamo il nostro tempo, a torto o a ragione, proteggendoci e giustificandoci in tutti i modi possibili e immaginabili, dal più sottile al più grossolano. Poco importa da che lato della trincea ci troviamo, noi restiamo incollati a questa negatività costantemente alimentata.
“Tutto sommato niente di nuovo”, direte voi.
Ma l’irritazione cresce quando constatiamo questo stato di cose anche in coloro che hanno raggiunto alti livelli di esperienza tecnica, di influenza e di responsabilità nelle arti che indicano esattamente la direzione spirituale opposta.
Si ha quindi il diritto di chiedere a cosa è servito il rituale, lo strumento di realizzazione che è l’Aikido?
La risposta è semplice: a rafforzare, a proteggere la sensazione di un sé separato che tenta di resistere a circostanze mutevoli e apparentemente pericolose.
Il discorso universale (uni verso) dell’Aikido è quindi ridotto a interessi “personali”.
In questo senso, l’immagine dell’Aikido trasmessa da O’Sensei perde la sua credibilità.
Se posso permettermi un significativo e breve confronto con le religioni (un collegamento etimologico con il sacro):
Tutti aspirano agli ideali più nobili e hanno come obiettivo finale la crescita, il risveglio dell’essere umano attraverso il riconoscimento della sua natura profonda: Dio, energia, vibrazione, il “Tutto”… manifesta se stesso in modi diversi.
Per questo motivo le religioni hanno lavorato per sviluppare proposte di rituali, strumenti di risveglio, porte d’ingresso.
“Se non hai fede, fai gesti di fede e la fede arriverà“. Sant’Ignazio di Loyola
In altre parole, l’acqua versata in un vaso ne prende la forma.
Uno dei principali malintesi (come in molte pratiche, sia spirituali che artistiche o di altro tipo), è che l’allievo si identifica a poco a poco con i rituali trasformandoli in dogma, occupandosi più dello strumento che del principio, trasformando così le porte d’ingresso in porte chiuse.
Cosa fare?
Diventare consapevoli di certi schemi e lasciare che la pratica ritrovi l’orientamento.
“Non possiamo risolvere i problemi con la stessa mentalità che li ha creati“. Albert Einstein
Diventare pienamente consapevoli di questa insoddisfazione esistenziale cronica, mimetizzata – ma a volte anche avvertita – che precede, accompagna e segue le nostre “scelte”, le nostre considerazioni; prendere coscienza di questa sofferenza, di questo vuoto d’identità che cerchiamo di compensare dietro mille travestimenti. Ed è l’umiltà che si manifesta, un inizio di cambiamento. L’Aikido, come uno specchio, ci permette anche questo.
Alcuni spunti pratici per una riflessione
L’importante non è la tecnica, ma il rapporto che ho con questa tecnica: cosa ne devo fare.
Usiamo le tecniche solo per proteggerci e difenderci da un ambiente potenzialmente ostile?
All’inizio creiamo queste strutture protettive per rispondere a una priorità immediata e acquisire anche una certa dose di fiducia. Tuttavia queste stesse strutture alla fine diventano una limitazione, nel senso che, anche se il problema è stato “risolto”, la maggior parte delle volte continuano ad essere l’eco di un problema da risolvere…
Il punto sta quindi nel passare da una priorità a un principio, da una visione parziale, alterata e superficiale a una visione globale basata su una costante. Il “kata” può quindi essere modificato, altre proposte possono venire alla luce, ma non necessariamente. È più un posizionamento mentale che tecnico. Se prendiamo in considerazione una costante, può anche emergere una nuova fiducia.
A livello didattico mi sembra importante, fin da subito, spiegare la nozione di principio, anche nelle forme base che esteriormente sono molto “tipiche”.
Ad esempio: Yokomen-uchi ingresso esterno.
In un primo momento tutta la nostra attenzione (visione) si concentra sull’idea di bloccare lo Yokomen. Successivamente, si tratta di reindirizzare questa attenzione verso una costante: l’asse del partner. Lo spirito dell’Aikido è quello di passare da una visione frammentata a una visione globale.
L’insegnamento basato esclusivamente sulle tecniche favorisce il condizionamento a concentrarsi su una risposta specifica a una situazione specifica?
Per poter impostare una situazione uke-tori dipendiamo irrimediabilmente (con le dovute proporzioni) da codici prestabiliti?
E’ il provare situazioni differenti che permette di dar corpo a principi comuni, o è la ripetizione meccanica di situazioni identiche?
Questa dipendenza, questo attaccamento ai codici alla fine è solo un tentativo per ottenere sicurezza, ma non fa altro che alimentare la tensione perché implica la necessità di condizioni specifiche per poter fornire quella specifica risposta.
Prendiamo l’esempio del Soto Kaiten nage.
Chi si concentra sulla trazione del braccio per organizzare il proprio movimento, di fatto dipende dalla presenza di quel braccio (una caratteristica fluttuante della situazione…) e dalla propria azione sullo stesso.
Se facciamo si che l’azione (fisica e mentale) si organizzi attorno a una costante (l’asse del partner), l’equilibrio del nostro movimento e la nostra posizione mentale non verranno influenzati dalla presenza o meno del braccio (questo esempio si riferisce al Soto Kaiten che Christian Tissier dimostra nella situazione in cui l’intenzione di uke è solo quella di avanzare).
Per riassumere: se io baso un’entrata (il più delle volte una reazione) su circostanze casuali, come posso sviluppare fiducia, calma, visione globale?
Al contrario se baso un processo su una costante, l’incertezza di una situazione mutevole, nella sua espressione, perde notevolmente il suo potere intimidatorio e di fatto la sua gestione diventa più facile. Inoltre, un movimento costruito su un principio richiederà sempre meno condizioni per essere efficace.
Sempre a livello didattico, le condizioni di partenza e di impostazione di una struttura di base devono puntare a un principio, una costante: il sacro. Non dovrebbero coagulare in forme fossilizzate e santificate.
Questo principio può essere trasposto?
Piuttosto che sentirci attaccati o messi in discussione dalla differenza, dalla specificità delle situazioni (culturale, sociale, etnica, ideologica…), non potremmo, prima di tutto, fare riferimento alla nostra natura comune, la costante?
Questo non soltanto renderebbe la differenza, la specificità ben più accettabili, ma sarebbe visto non più come un problema ma come un’ennesima espressione, celebrazione, tavolozza dei colori di questa cosiddetta natura.
Il beneficio di questa presa di coscienza è che quindi noi potremmo vivere e gioire pienamente di queste differenze perché non vi saremmo più completamente identificati.
Il Sutra del Diamante lo esprime a meraviglia in questo verso: X non è X, ecco perché posso chiamarlo ‘X’ (X può essere sostituito da qualsiasi cosa).
Ecco il messaggio di amore e compassione: il riconoscimento della nostra natura comune, della nostra inseparabilità.
Usiamo le tecniche come mezzi di comunicazione pacifici?
L’atteggiamento marziale che consiste unicamente nel dominare, costringere, sottomettere il proprio partner fisicamente e mentalmente attraverso la paura, mentre l’adrenalina sale, mi sembra sempre più un elemento di divisione.
Da un punto di vista umanista, coltivarlo è come stirare una piega sbagliata.
Anche se indubbiamente abbiamo la sensazione di aver risolto un problema imponendo un “punto di vista”, in realtà gli abbiamo dato risonanza, l’abbiamo alimentato e, peggio ancora, abbiamo lasciato una traccia, un segno di tensione, di paura in noi stessi e nell’altro: il segno di una individualità che considera un’altra individualità come problematica.
Questa risonanza condizionerà le situazioni future, sul tatami e fuori.
Invece potremmo considerare l’altro non più come un problema, un avversario, ma piuttosto come una soluzione, un “alleato”, una fonte di informazioni da raccogliere per rendere possibile un aggiornamento funzionale delle nostre capacità. Le braccia non sarebbero più ridotte alla semplice funzione di scudo protettivo, riflettendo paure e aggressività, ma diventerebbero – da un punto di vista sensoriale, tattile – degli strumenti percettivi.
Passeremmo da una modalità di rifiuto a una modalità di comunicazione, in quanto la nostra pratica mirerebbe a renderci più sensibili, più percettivi rispetto alla situazione del momento, potenziando la qualità nella nostra presenza, dunque consapevolezza e armonia. I movimenti armoniosi sono balsamici e fonte di gioia, al contrario di quelli che suscitano paura e tensione.
“Devi imparare come vedere, come ascoltare, non cosa vedere, cosa ascoltare. Imporre il proprio punto di vista è dittatura, invece insegnare a qualcuno a essere consapevole, questa è davvero un’arte tradizionale”. Eric Baret
Diventare sensibili significa diventare consapevoli, essere consapevoli è risvegliare la propria sensibilità. E’ quindi darsi la possibilità di intravedere la natura condivisa e fondamentale di tutte le cose, di meravigliarsi e di rappacificarsi.
Per non dilungare troppo questo articolo, concluderò con un’osservazione di Zeami Motokiyo, drammaturgo giapponese e teorico del teatro del Nō, che ha illustrato la differenza tra un attore molto bravo e un attore eccezionale:
“Nel teatro del Nō, uno specifico movimento codificato (una posizione della mano) significa che l’attore sta guardando la luna.
Il bravo attore avrà un gesto molto chiaro, espressivo, e tutti resteranno ammirati davanti alla bellezza del personaggio… L’attore eccezionale scomparirà agli occhi del pubblico, a favore della luna stessa”.
Dovremmo vedere la bellezza del principio rivelato attraverso l’Aikidoka piuttosto che il suo vano e frenetico tentativo di appropriazione.
Il conflitto interiore che risiede in noi deriva dal fatto che prendiamo le cose a livello personale, il nostro punto di vista mostra semplicemente i nostri limiti. Se ci rendiamo conto di questo meccanismo, di conseguenza possiamo accettare che ognuno ha una “ragione per agire” in base a circostanze, limiti e inclinazioni che gli sono propri. Questo non impedisce l’azione di difendere la propria vita, ma ciò rimarrà funzionale, senza il parassita della negatività cronica, senza fermentazione psicologica: non è nulla di “personale”.
Fondamentalmente accettiamo la situazione e agiamo, più o meno, secondo le nostre inclinazioni. Alla fine, le cose accadono, senza fissazioni. Il problema non è l’oggetto, ma la relazione, la resistenza nel tempo che mantengo o meno con esso.
“Non si tratta di correggere gli uomini, ma di correggere il proprio cuore, questo è l’Aikido. Questi sono i dettami che l’Aikido dà a te e che tu dovresti dare a te stesso”. O’Sensei
Didascalie:
Pag. 25: “La fede, come la fisica, consiste nel comprendere le cose invisibili attraverso le cose visibili” – Michel Cassé, astrofisico
Pag. 26: “La mia specialità è rendere visibile l’invisibile e invisibile il visibile” – Marcel Marceau
“Siamo tutti collegati. La separazione è un’illusione ottica della coscienza”– Albert Einstein
Pag. 27: “Spesso la paura di un male ci porta al peggio” – Boileau
Pubblicazione originale in francese: Dragon Magazine – Special AIKIDO N°18
Tradotto in italiano da Sabrina Conti