Il potere dell’Intenzione
intervista a Bruno Gonzalez
Professionista molto seguito per la qualità dei seminari che dirige, Bruno Gonzalez, 5° Dan (6° Dan dal 2015, n.d.t.), membro del Technical College FFAAA, ci racconta le basi della sua formazione, così come l’ha ricevuta dal suo sensei Christian Tissier.
Quando senti la parola “Aikido”, cosa ti viene subito in mente?
La parola “arte”: libertà all’interno di una struttura. Gli aikidoka, come gli artisti, sono artigiani che sperimentano, in continua evoluzione. Cercano costantemente di diventare più consapevoli della loro pratica per una migliore comprensione dei principi che la governano, e questo per avvicinarsi a un ideale di comunicazione: l’atteggiamento giusto al momento giusto.
Fai riferimento a un Sensei in particolare?
Christian Tissier, per l’idea a cui ho appena accennato. Bertold Brecht ha detto: “Chi non è disposto a studiare non deve insegnare, chi insegna deve insegnare a studiare “.
In altre parole, ciò che insegniamo meglio è quello di cui siamo alla ricerca. A tal riguardo, Christian Tissier è un ricercatore.
Preso atto che il dojo è il luogo privilegiato dell’Aikido, cosa dovrebbe portarvi un praticante?
Tutto dipende dall’approccio personale, ovviamente. Per quanto riguarda la visione che ho della formazione, mi sembra chiaro che il dojo è un luogo esigente. E credo che l’impegno, la perseveranza siano le qualità principali che il praticante deve portarvi. La capacità di saper ascoltare, la fiducia nel proprio maestro (che abbiamo scelto come guida) sono essenziali in quanto può accadere che non si capisca ciò che ci viene insegnato; d’altronde comprendiamo realmente ciò di cui non abbiamo fatto una significativa esperienza, in cui non abbiamo competenza?
Infine l’allievo ha una enorme responsabilità nel suo lungo percorso, deve rimanere attivo. Vale a dire: fare in modo, attraverso i suoi esperimenti, i suoi dubbi, di riscoprire l’insegnamento che ha ricevuto, divenire a sua volta un ricercatore. In altre parole, riflettere sulla sua pratica per appropriarsi di questo insegnamento. A dirlo sembra ovvio, nei fatti lo è molto meno.
A volte può capitare di avere la sensazione di scoprire (farsi chiarezza su) una tecnica, un principio… per la prima volta, anche se l’insegnante l’ha già mostrata per dieci anni. Un famoso attore Kabuki ha detto: “Io posso insegnarvi il gesto che significa “guarda la luna”, posso insegnarvi questo movimento fino all’estremità del vostro dito puntato verso il cielo, ma dal polpastrello alla luna la responsabilità è vostra”.
Quali riferimenti al fondatore dell’Aikido, Morihei Ueshiba, dovremmo mantenere?
“Ascoltare la tradizione non significa rimanere aggrappati al passato, ma meditare sul presente “. Lo ha detto Heidegger.
Il concetto di rispetto è molto forte in Aikido, come dovremmo intenderlo? Come si traduce nella pratica?
Il rispetto è un atteggiamento di apertura, una capacità di ascolto, però spesso è ostacolato dalle nostre paure e anche dalle nostre certezze. Lo scopo del nostro lavoro è quello di rimuovere questi timori… per ottenere la libertà. In concreto, è un tentativo, attraverso la pratica, di comunicare per educarsi reciprocamente. In questo senso, la pratica dovrebbe renderci sempre più rispettosi.
Perché questa assenza di competizione in Aikido?
Per competizione in genere intendiamo antagonismo, ricerca del risultato, e questo ha la sua parte di effetti negativi, ma non dimentichiamo i suoi effetti positivi. In primo luogo, in una pratica intensiva esistono delle fasi di apprendimento in cui si ha la necessità di sviluppare il corpo, la determinazione, la fiducia… tanto come uke quanto come tori (il nostro futuro potenziale marziale, la credibilità, l’esperienza…).
Sappiamo tutti che in quelle fasi esistono dei rapporti di conflitto tra i praticanti. Infatti cerchiamo, più o meno, di imporre la nostra pratica con l’idea di un certo risultato. Questo è inevitabile, perché il nostro studio si basa sulle situazioni di conflitto.
Ad un certo livello, di solito, ci rendiamo conto piuttosto rapidamente dei limiti, tanto sul piano fisico che sul piano stesso della messa in prospettiva della pratica (essendo quest’ultima disciplinata, tra gli altri, da questo principio antropologico: il principio di economia, di semplificazione secondo cui l’uomo tende a ottimizzare le proprie azioni con il minimo sforzo).
Abbiamo anche passaggi di grado che sanciscono un percorso con la ricompensa per un risultato: l’ottenimento o meno di un livello più alto. E’ una scadenza che motiva una preparazione, spesso fruttuosa, perché allontana lo studente dalla sua attitudine a imitare, attitudine tenuta di frequente nel seguire un corso. Questo è anche, a mio avviso, il principale beneficio degli esami.
(I passaggi di grado rispondono anche, ovviamente, a una esigenza organizzativa di un sistema federale…).
In sintesi: nella pratica esistono il concetto di antagonismo e di risultato. Il tutto sta nell’avere una reale coscienza, sapere cosa fare per evitare effetti collaterali (problemi di ego…) che falserebbero il nostro approccio.
Mi sembra, per esempio, che la pratica dell’Aikido sia soprattutto un processo in cui il concetto di risultato è, al contempo, soggettivo e relativo. La cosa importante è il processo, il percorso e la responsabilità che abbiamo di rimanere attivi (grado o non grado).
Non vedo al momento quale modalità di competizione nell’Aikido potrebbe, oltre la realtà della pratica che già conosciamo, servirci per i nostri obiettivi.
Tuttavia, iniziare anche una pratica competitiva (pugilato, ecc.) può contribuire ad arricchire il nostro percorso di aikidoka, tutto dipende da quello che facciamo.
Con quali modalità il combattimento con la spada è presente nel vostro Aikido?
La pratica della spada è lo spirito della risolutezza, della determinazione, del controllo: l’intenzione, l’azione allo stato puro. Studiare il ken significa sviluppare, tra le altre, queste qualità.
Questo è, a mio parere, ciò che dona alla pratica dell’Aikido gran parte della sua potenzialità marziale e di comunicazione (il potenziale della punizione e allo stesso tempo della clemenza: il controllo). O si finisce con l’azione, oppure tale credibilità diventa un fattore di comunicazione, nel senso che contiene la natura della reazione che deve adottare il partner. Uke ha allora la possibilità di accettare più o meno consapevolmente la via d’uscita che gli viene proposta.
Il lavoro è quello di sviluppare in modo sistematico una costruzione tecnica (la forma), piena di intenzioni (la sostanza), che funzioni indipendentemente dal livello di percezione di uke e al di là dei codici. Nello studio, più il movimento si prolunga nel tempo, più richiede comunicazione.
La difficoltà di una buona comunicazione è quella di inviare una intenzione chiara (percettibile), credibile, ed essere sufficientemente disponibili a percepirla.
L’Aikido è un insieme infinito di tecniche. Quali sono, per te, le più fondamentali? Quelle che l’aikidoka dovrebbe praticare senza sosta?
Tutto è relativo, ciascun aikidoka può considerare fondamentale una tecnica, o almeno il suo approccio, quando questa è rilevante per il suo progresso in un determinato momento, e questo qualunque sia il suo livello.
All’inizio, per esempio, il lavoro di costruzione è fondamentale, ma lo diventa meno una volta “acquisito”?
Con l’esperienza e la scomparsa di alcune preoccupazioni, le priorità di un’azione cambiano quantitativamente e qualitativamente, liberando la mente che non si cristallizza più su di esse. Tuttavia, tutto è perfettibile: i movimenti di base, la costruzione o le applicazioni; in un certo senso è quello che noi facciamo della tecnica (la nostra relazione con la tecnica) a essere fondamentale. E’ vero che all’inizio dell’apprendimento abbiamo a nostra disposizione una vasta gamma di tecniche, che ci offrono un ampio spazio di sperimentazione, e molti, differenti limiti da superare… Tuttavia, possiamo considerare che a un determinato livello questa gamma si restringe perché abbiamo meno priorità da gestire all’interno dell’azione. Così le risposte si semplificano per avvicinarsi infine le une alle altre.
Per esempio, immaginate di gestire l’attacco yokomenuchi, shomenuchi, tsuki, nello stesso modo per alcune azioni (ikkyo, ecc.). In sintesi, ciò che renderà, a un certo livello, questa tecnica “più fondamentale” di un’altra, è il numero di principi che noi svilupperemo e sommeremo per eseguirla.
Il fondatore dell’Aikido, Morihei Ueshiba, ha posto il “Ki ”, l’energia, nel cuore dell’Aikido. Come dobbiamo intenderlo?
Attualmente, ho una modesta comprensione “scientifica”. In poche parole, l’energia è il risultato di forze che si oppongono. Si parla di qualità dell’energia sulla base dell’intensità delle forze, delle resistenze e degli ostacoli coinvolti.
Nella nostra pratica, ciò che mette una forza in movimento è l’intenzione, un’azione del pensiero, ad esempio: “voglio alzare il mio braccio”. In modo semplificato e pratico, si può parlare di intenzione come di energia. Ci sono fasi dell’apprendimento in cui dobbiamo sviluppare energia.
Il body builder, se vuole che il suo corpo si trasformi, deve sviluppare più energia, quindi più intenzione, per sollevare pesi sempre più pesanti. Questo è il modo positivo (fare esperienza, accumulare tecnica, potenza, quindi energia, ecc.). Più o meno parallelamente, esiste il modo negativo (processo di eliminazione, di semplificazione), il principio di economia per il quale tendiamo a utilizzare una energia minima per ottenere risultati ottimali.
L’idea è di garantire che i conflitti, le priorità di un’azione diminuiscano, che la situazione che proponiamo a uke sia accettata, per evitare di dare risonanza o amplificare quegli stessi conflitti e anche per disinnescarli prima che si siano più o meno concretizzati.
Credo sia da qui che la “dimensione filosofica” del Ki, l’energia, trae parte del suo significato. Sentiamo spesso parlare di armonizzare l’energia… In pratica significa sviluppare, tra le altre, la capacità di adattamento per fare in modo di creare una situazione in cui le intenzioni di uke e tori si contrappongano il meno possibile, o per nulla.
Comunemente si parla di utilizzare la forza del partner (la sua energia, dunque la sua intenzione) per eseguire il nostro movimento al fine di sviluppare noi stessi un minimo di energia, da cui il principio di “non”-azione, di “non”-opposizione.
In breve: atteggiamento giusto al momento giusto potrebbe alla fine tradursi in energia giusta al momento giusto.
Attenzione: si può essere tentati durante l’insegnamento di riempire a volte, consciamente o inconsciamente, una carenza di competenza con un discorso astratto, pseudo-“magico”: vi consiglio di astenervi e di approfondire la vostra “arte”. L’astrazione rimane un concetto relativo dipendente dal livello di coscienza degli uni e degli altri.
Tuttavia, da un punto di vista teorico e pedagogico, dobbiamo cercare di rendere questi concetti pratici, operativi e semplici da trasmettere. Il modo migliore è proprio la nostra pratica “artigianale”.
Fondamentalmente l’Aikido è un budo, un bujutsu, uno sport da combattimento?
Si tratta di un sentiero, segnato da principi, verso un ideale di comunicazione. Chi dice “cammino” dice “errori, domande, esperimenti” e via dicendo.
In definitiva l’Aikido è quello che stiamo facendo nel presente.
Come si modella l’Aikido all’essere umano?
Dapprima si prepara un materiale di qualità, poi, come lo scultore, si toglie il superfluo.
E. Decroux ha detto: “Le arti sono uguali nei loro principi, ma non nelle loro opere “, e Paul Claudel: “Il principio della grande arte è quello di evitare rigorosamente l’inutile “.
Tu insegni in Francia e all’estero. Qual è il messaggio che aspiri a trasmettere?
L’importanza di un rigore tecnico: una precisa consapevolezza della propria tecnica, e ciò indipendentemente dalle forme. Come possiamo correggerci se non siamo ampiamente coscienti di quello che stiamo facendo? Questa consapevolezza favorisce tra l’altro lo sviluppo della visione. Le variazioni, le sottigliezze che l’insegnante mostra, ci possono apparire così più chiaramente.
Le nostre sperimentazioni (variazioni) quindi prendono più senso perché diventano consapevoli, dunque “attive”, e non frutto del caso, del “per lo più”.
Inoltre, spesso sottolineo quel concetto di comunicazione che ho citato in precedenza (intenzione e disponibilità) per far uscire l’allievo da una pratica a volte un po’ “meccanizzata” e/o fortemente codificata, in cui una qualche forma di passività si insedia facilmente. Il codice non deve sostituire o impoverire la comunicazione, deve invece fornire una base che permetta di crescere, di arricchire il presente. La situazione di conflitto è ben lungi dall’essere una situazione innocua, mi sembra importante non banalizzarla.
Beninteso, io sono il primo a cui indirizzo questi messaggi.
Intervista di Albert Wrac’h
Pubblicazione originale in francese: Aikido Magazine – Giugno 2011
Tradotto in italiano da Sabrina Conti